Avete presente aterrare su Marte?
Certo che no, come potreste. Eppure così ci siamo sentite all’arrivo: astronaute lontane ed in bilico tra la novità al di fuori ed i preconcetti dentro. Ingarbugliate in una realtà umida come l’aria greve che ti fa appiccicare i vestiti alla pelle. Perché il Guatemala è un paese pesante. Pesante come I bambini fasciati sulle schiene delle madri spesso giovanissime eppure già adulte, donne-padri. Pesante come i tetti delle case, forse non poi così pesanti, chè un colpo di vento e van via. Pesante come il passo della gente, lento e permeato d’un tranquillo vigore, come i tuc tuc stracarichi, come la sensazione di impotenza di fronte a quei piedi scalzi e a quegl’occhi stanchi che trovano riparo tra mura di bambù e pavimenti di terra battuta.
Eppure lì c’è la Vita. Quella autentica, quella la cui forza ti permette di regalare un saluto a chi incroci per strada anche mentre stai trasportando sulla schiena un carico enorme di legna. Quel rispetto per la Vita che aiuta a tessere, tra l’ordito di un corte, anche le speranze per un domani migliore. Ci sono i Colori, tinte caratterizzate da un’intensità che solo le cose vere possiedono e cangianti per la luce che solo il dolore insegna a riconoscere. E poi ci sono i Sorrisi: sorrisi metallici, sporchi, eppure limpidi per la gratuità con la quale vengono regalati.
Lo stesso senso di gratuità che, unito alla passione ed all’impegno, si respira al Centro Maya, una fabbrica di futuro in cui il desiderio di rimanere lì ed il legame d’affetto instaurato con i patojos rapidamente ti cingono cuore e non ti lasciano più. Un luogo accogliente in cui si ritrovano convogliate storie d’un mondo, quella della disabilità, imprigionato dalle resistenti seppur arrugginite catene d’ una povertà disarmante. I ragazzi nel Centro trovano una Casa e nel taller l ‘Indipendenza che assume dapprima le sembianze di uno spiraglio economico, poi di una finestra spalancata dal senso di responsabilità ed infine di una porta che permette loro di aprirsi al mondo esterno del quale prima erano in balìa; un processo lento quest’ultimo, ma straordinario e garantito soprattutto dalla capacità di entrare in punta di piedi nei singoli contesti familiari. Un impegno complesso, quello di Marinella e di tutti coloro che scelgono di lavorare al Centro, ma coinvolgente e positivo a tal punto da spinger loro a lasciare le comodità dei loro luoghi d’origine per metter radici in quel di San Juan la Laguna.
Ti ritrovi quindi ad ascoltar storie, a guardare davvero negli occhi le persone e a veder così crollare come un castello di carte le certezze costruite in una vita. E proprio mentre stai iniziando a capire come riordinare le carte, rivalutando le tue priorità ed i tuoi desideri, ecco che è ora di tornare a casa. E durante il viaggio ti ritrovi a chiederti cosa rimarrà in te di quella patria dei controsensi, di quel mondo semioscurato e riflettente, come i finestrini delle auto e l’acqua fangosa delle pozzanghere, di cui sei riuscito ad intravedere purtroppo solo poco, ma grazie al quale ti sei visto riflesso.
Ed ora siamo qui, a scrivere, a ricordare e a cercare di scacciar via la confusione, nel tentativo di riabituarci alla nostra realtà, che adesso ci appare troppo diversa e superficiale. Alla fine si attenuerà la nostalgia e forse anche il senso di colpa per essere nate nel lato di mondo considerato, può darsi erroneamente, migliore. Passeranno, ma ciò che non deve passare è la consapevolezza che da qualche parte, su montagne a forma di viso, ci sia qualcuno che sta perdendo un giorno di lavoro per caricarsi sulla schiena insieme ad un pietrone per potersi lavare i vestiti, anche la certezza di star cambiando la propria vita.
Alice e Vittoria, le sbarbine.